Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte era il seguente: un soggetto, affetto da una patologia rarissima e molto grave, stipulava con un medico un contratto d’opera professionale in forza del quale il medico si impegnava a svolgere in esclusiva, a favore del paziente, attività di anamnesi, diagnosi, informazione, consulenza e assistenza; l’attività del medico comportava la sua presenza in loco per due giorni a settimana, con reperibilità telefonica per i restanti e disponibilità a raggiungere il paziente nel caso in cui si fosse rivelata necessaria la sua presenza.
Il contratto, inoltre, prevedeva una durata di due anni; nulla sanciva, invece, relativamente alla eventuale facoltà di recesso del paziente, ossia alla possibilità per quest’ultimo di sciogliersi dal contratto mediante una semplice manifestazione di volontà, anche prima dello spirare del termine biennale di durata. Si verificava, peraltro, proprio questa eventualità: il paziente, infatti, recedeva anticipatamente rispetto allo spirare del termine biennale. Sorgeva quindi una controversia tra le parti relativamente alla legittimità o meno di questa condotta.
Si comprende agevolmente che l’accertamento della possibilità per il paziente di recedere dal contratto era di fondamentale importanza, soprattutto considerato che il medico svolgeva la propria attività a favore del paziente in regime di esclusiva. Perso l’unico introito, infatti, il medico si sarebbe trovato nella condizione di trovare un nuovo impiego, non avendo però potuto coltivare alcun rapporto lavorativo alternativo.
In materia di contratto d’opera professionale, tipologia contrattuale nella quale rientrava la prestazione del medico, è necessario premettere che l’art. 2237 co. I c.c. prevede espressamente che il cliente può recedere dal contratto, rimborsando al prestatore d'opera le spese sostenute e pagando il compenso per l'opera svolta dal professionista. Essendo tale previsione derogabile per volontà delle parti, si trattava di accertare se la previsione della durata biennale del contratto potesse costituire una rinuncia tacita alla libera recedibilità da parte del cliente.
Il Tribunale in primo grado accoglieva le richieste del medico condannando il paziente al risarcimento del danno, ritenendo che la tipologia di prestazione richiesta al professionista, intimamente connessa alla fiducia riposta su di esso dal paziente, congiuntamente alla previsione della durata biennale del contratto, comportasse una rinuncia tacita alla facoltà di recesso per il paziente. Al contrario, la Corte d’Appello rigettava la ricostruzione del medico, affermando che nel caso di specie non si poteva ritenere che le parti avessero inteso derogare alla previsione della libera recedibilità del contratto da parte del cliente prevista dall’art. 2237 c.c..
La Suprema Corte, investita della questione, ha confermato la soluzione adottata dalla Corte d’Appello, rilevando che la predeterminazione di un termine di durata del contratto può comportare la rinuncia da parte del cliente al recesso solo qualora dal complessivo regolamento negoziale possa inequivocabilmente desumersi la volontà delle parti di vincolarsi per la durata del contratto vietandosi reciprocamente il recesso prima della scadenza del termine finale. Nel caso in esame, peraltro, la Cassazione ha rilevato come la Corte d’Appello avesse correttamente escluso - in relazione alla particolare natura della prestazione professionale - che il cliente avesse inteso rinunciare alla facoltà di recesso.
Avv. Mattia Tacchini
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