Come noto, il regolamento condominiale può essere di due tipi: di tipo assembleare oppure contrattuale. Il primo è quello che viene approvato dall’assemblea di condominio con le maggioranze previste dal codice civile, ossia con la maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno metà del valore dell’edificio (artt. 1136 e 1138 c.c.): ha la funzione di regolare l’uso delle cose e dei servizi comuni, nonché fissare tabelle millesimali per la ripartizione delle relative spese di manutenzione. Il secondo, invece, è predisposto dal costruttore (o dall'originario unico proprietario) oppure viene adottato dalla totalità dei condomini: oltre a prevedere la regolamentazione dell’uso delle parti comuni, può anche disciplinare il godimento degli immobili di proprietà esclusiva dei condomini, ad esempio precludendo la loro destinazione a determinati usi (commerciali, professionali, ecc.).
Ovviamente, il tema della interpretazione del regolamento condominiale, ed in particolare di quello contrattuale che può prevedere limiti anche pesanti al diritto di proprietà dei titolari dei singoli immobili, è molto delicato: qualsiasi limitazione al diritto di proprietà, infatti, viene naturalmente vista con grande sospetto e diffidenza.
Il caso esaminato dalla Corte è il seguente: due soggetti, proprietari di un appartamento ad uso residenziale sito al piano primo di un condominio (dotato di regolamento condominiale contrattuale), destinavano tale appartamento a ristorante - pizzeria, collegandolo con una scala interna ad un altro immobile, sempre di loro proprietà e sito al piano terreno dello stabile, già adibito a tale uso, permesso dal citato regolamento. I proprietari dell’appartamento confinante con quello sito al primo piano agivano in giudizio affinché i ristoratori fossero condannati al ripristino della destinazione abitativa del menzionato appartamento e al risarcimento del danno, cagionato dalle immissioni di rumori che ritenevano insopportabili.
Gli attori lamentavano la violazione del regolamento condominiale che, a loro dire, avrebbe vietato la destinazione commerciale degli immobili siti al di sopra del piano terra; inoltre, affermavano che la condotta dei ristoratori violava anche un’apposita delibera condominiale, che aveva espressamente vietato la destinazione dell’immobile a tali attività.
Il tribunale competente rigettava la domanda giudiziale, che veniva invece accolta dalla corte d’appello in sede di gravame. Più nel dettaglio, il giudice di secondo grado aveva interpretato in modo difforme da quello di prime cure una clausola del regolamento condominiale la quale prevedeva che “I locali cantinati e i terranei potranno essere destinati ad autorimesse, a deposito, ad officina tecnicamente organizzata con rumorosità però da non superare i limiti consentiti dalle disposizioni di P.S. e comunale ed all'esercizio di qualsiasi attività commerciale, industriale, artistica e professionale, nonché ad uffici, senza alcuna limitazione”. A detta della corte d’appello, infatti, tale clausola doveva essere interpretata nel senso che – non essendo espressamente autorizzato l’uso commerciale dei locali siti dal primo piano in su – la destinazione stabilita dai titolari doveva intendersi preclusa. I proprietari dell’immobile adibito ad attività di ristorazione, perciò, ricorrevano per cassazione.
La Suprema Corte, rimanendo nel solco del proprio orientamento dominante, ha innanzitutto premesso che, in sede di interpretazione del regolamento condominiale di origine contrattuale, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale: le singole clausole devono essere esaminate congiuntamente, coordinandole le une con le altre (ai sensi dell’art. 1363 c.c.), facendo riferimento alla formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, senza limitarsi ad una parte soltanto di essa. Solo in tale modo, infatti, è possibile accertare l’effettiva portata di ogni clausola del regolamento contrattuale.
La Cassazione ha proseguito sottolineando correttamente che il regolamento condominiale di origine contrattuale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà sia mediante un’elencazione delle attività vietate, sia indicando i pregiudizi che si intende evitare. In quest'ultimo caso, peraltro, per evitare ogni equivoco in una materia idonea a incidere sulla proprietà dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni chiare, che non causino incertezze: per accertare la reale portata di ogni singola clausola è necessario superare la sua autonoma considerazione, cercando perciò di individuare le attività ed i relativi pregiudizi che essa intende impedire. Solo in tale modo, infatti, si può accertare se la compromissione delle facoltà derivanti dal diritto di proprietà corrisponde effettivamente ad un interesse meritevole di tutela.
La Corte ha proseguito affermando che, nell’attività di interpretazione del regolamento condominiale contrattuale, è necessario evitare interpretazioni di carattere estensivo, sia relativamente alle limitazioni imposte alla proprietà individuale, che (a maggior ragione) per quanto concerne la corretta individuazione dei beni che effettivamente devono essere assoggettati a eventuali limitazioni delle facoltà di destinazione di norma spettanti al proprietario.
Premesso quanto sopra, la Cassazione ha rilevato che la regola del divieto di utilizzo delle unità immobiliari poste a partire dal primo piano del fabbricato, ad un uso diverso da quello abitativo, era stata desunta da una norma del regolamento di condominio che, invece, si occupa specificamente solo dei limiti alla facoltà di utilizzo dei locali posti al piano terreno e dei cantinati. In sostanza, la corte d’appello si era basata sulla regola che autorizzava espressamente la destinazione commerciale degli immobili al piano interrato e al piano terreno dello stabile per concludere che, se il regolamento citato avesse voluto estendere la possibilità di destinazione commerciale anche agli appartamenti siti ai piani superiori, avrebbe dovuto prevederlo espressamente; in caso contrario, l’unico uso lecito di tali immobili doveva essere ritenuto quello residenziale. La Suprema corte, invece, ha ritenuto che solo le limitazioni espressamente previste possono reputarsi operative: il silenzio sintomatico, più che di una volontà di porre dei limiti, deve sempre essere interpretato nel senso di preservare integre le facoltà tipiche del diritto di proprietà, cassando la pronuncia della corte d’appello.
Avv. Mattia Tacchini
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