Dal sito: www.estense.com
Venne venduta in moglie da sua madre quando aveva appena 14 anni. La sua vita valeva 60.000 mila euro. Tanto la pagarono i suoi futuri suoceri. Da allora è stata una storia di umiliazioni e pestaggi. Costretta a fare l’elemosina, minacciata di essere mandata sulla strada a prostituirsi, picchiata perché aveva alzato la voce contro il marito, anzi contro il suo padrone.
La sua vicenda diventa nota quando finalmente, dopo aver subito un pestaggio ad opera del coniuge e del suocero trova il coraggio di denunciare quanto accaduto. Cosa non facile, anche perché non aveva il permesso di uscire da sola da casa e nemmeno di chiamare i parenti senza consenso. Quella volta però era rimasta in casa da sola e ha approfittato della rara occasione.
Era il 19 dicembre del 2012 quando l’ormai 23enne avverte i carabinieri. Sono le 13.30. Agli uomini del nucleo operativo e radiomobile di Verbania racconta in lacrime e spaventatissima di essere stata picchiata e di essere rinchiusa in un appartamento in una zona che non conosceva, non essendo mai uscita di casa. Ai militari riesce solo a indicare il numero civico, ma non la via. Con lei ci sono i suoi tre bambini. Grazie al nome dei familiari i carabinieri riescono a rintracciare il luogo della chiamata d’aiuto, Gravellona Toce. La telefonata è partita da un’utenza mobile svizzera. Grazie al coordinamento con le forze di polizia elvetiche si risale al titolare dell’utenza e quindi al luogo della presunta segregazione.
Al loro arrivo i carabinieri trovano il marito, un 28enne di nazionalità kosovara (così come la moglie, anche se per l’ordinamento italiano sono solo conviventi) con precedenti penali in Svizzera per detenzione di armi e reati contro il patrimonio. Alla vista del dispiegamento di forze la ragazza ha perso i sensi. Solo una volta rinvenuta, dopo che l’ambulanza l’aveva portata in ospedale (per lei sette giorni di prognosi), ha raccontato la sua storia.
La vittima è nata in Kosovo. Rimane orfana di padre a 5 anni. Quando raggiunge i 14 anni, la famiglia (la madre, lei e i due fratelli) si trasferisce in Puglia. Qui conoscono i connazionali che diventeranno i suoi futuri “proprietari”. Stipulano il prezzo delle nozze: 60mila euro. Da allora inizia il suo calvario. È il 2004. Con il marito va a vivere a Pieve di Cento. Iniziano subito i maltrattamenti. Anche quando era incinta del terzo figlio.
Nel 2007, stanca di essere costretta a fare l’elemosina davanti ai supermercati, con tanto di percosse se non avesse portato a casa abbastanza soldi, trova il coraggio di fuggire. Trova un aiuto da una signora del luogo, che le compra il biglietto del treno per raggiungere la sorella, rimasta in Puglia. Qui ‘resiste’ per circa un mese. Dopodiché si riappacifica con il coniuge che la viene a riprendere. I due ottengono lo status di rifugiati politici in Svizzera e nel 2008 valicano le Alpi. Qui l’uomo ha dei guai con la giustizia e finisce più volte in carcere.
Dopo quattro anni la riporta in Italia, a Gravellona Toce, in provincia di Verbania, dove vivono i genitori di lui e il fratello. È il 15 dicembre del 2012. Da quella casa uscirà solo il giorno della denuncia. La sera prima, il 19, in un impeto di gelosia (“credevo che avesse un’altra e che mi avesse portato in Italia per stare vicino a questa donna”) lei lo offende. L’uomo, per tutta risposta, la prende per una spalla, quasi lussandola, la sbatte per terra. Come una furia è sopra di lei. Le prende la testa per i capelli e la sbatte sul pavimento. Più volte. In casa ci sono i suoi suoceri. La donna incita il figlio a “farla scoppiare” di botte. E intanto chiude la porta a chiave. Ma lei urla disperata. Allora il padre le tappa la bocca con una mano e con l’altra la colpisce al volto.
Arriva anche il cognato, che la porta in camera e la lascia per terra. Qui si risveglierà dolorante il mattino dopo. Di nascosto dal marito prende il telefono e chiama il 112.
L’uomo è già stato condannato in patteggiamento lo scorso settembre a 3 anni e 9 mesi per maltrattamenti. Ora a processo a Ferrara, davanti alla Corte d’Assise (competente geograficamente per i fatti di Pieve di Cento), ci sono i suoceri. Per loro l’imputazione è sequestro di persona e riduzione in schiavitù.
In aula, davanti al presidente del tribunale Luca Marini, al giudice a latere Alessandro Rizzieri e ai giudici popolari, la vittima ha ripercorso tra mille difficoltà le ultime ore prima della ‘liberazione’. Anche perché a livello psicologico la giovane, che non si è nemmeno costituita parte civile, mostra di subire ancora l’influenza di anni di sottomissione.
Se in occasione della denuncia ai carabinieri, quando “ero piena di rabbia e dolore per quello che mi avevano fatto”, non si fece remore di ricordare che il marito le diceva “sei la mia schiava”, che “se non ci sono soldi devi andare a fare la puttana” (con il suocero a rincarare la dose: “prima di lasciare questa casa ti rendiamo invalida” e “se vuoi andartene devi restituire tutti i soldi che abbiamo pagato”), ora in aula sembra quasi fare un passo indietro. “Ma lo diceva solo per rabbia – minimizza -, perché io lo facevo imbestialire con le mie domande”. Anche le sevizie del dicembre 2012 “non erano sempre così violente; non mi picchiava sempre, magari ogni due o tre mesi… a volte mi dava solo degli schiaffi. Ci sono stati anche dei momenti belli. Credo siano cose che succedono in tutte le famiglie”.
Mentre tenta di giustificare il comportamento dei parenti in aula scorrono tra le mani dei giudici le foto dei lividi causati dal pestaggio. Ma lei continua: “mentre era in prigione lui mi scriveva, abbiamo fatto la pace, i suoi genitori mi hanno sempre aiutato, mi hanno trattato anche come una figlia, mi sentivo in colpa per quello che aveva provocato la mia denuncia”.
L’ansia di non peggiorare la situazione degli imputati la porta anche a vistose contraddizioni. Come quando il pm Francesco Caleca cerca di capire i contorni della possibile riduzione in schiavitù e della segregazione. “A Pieve potevo uscire tranquillamente di casa”, salvo aggiungere subito dopo “ma mai da sola” e solo dopo “aver chiesto il permesso”.
Al termine dell’esame la ragazza – che da allora vive con i tre figli in una comunità protetta – rivolge addirittura una preghiera ai giudici: “tutte le persone possono sbagliare, io non volevo mettere mio marito in questa posizione. Gli voglio un mondo di bene e chiedo perdono per lui”.
Gli imputati si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. A marzo il processo continuerà con la discussione.