Nella nostra vita i social network stanno acquisendo una importanza sempre maggiore, inutile negarlo: essi, però, in alcuni casi fanno sorgere problemi di natura giuridica che per i giudici italiani sono sostanzialmente nuovi, con la conseguenza che i primi ad affrontarli si trovano a dover risolvere problemi interpretativi ed incertezze che possono rendere aleatoria o controversa la decisione del caso concreto.
L’art. 595 del codice penale prevede che “chiunque … comunicando con più persone offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro”; tale reato è aggravato (con applicazione di una pena più severa, ossia la reclusione da sei mesi a tre anni o la multa non inferiore a 516 euro) quando “l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico”.
Nel caso di pubblicazione sulle pagine personali di Facebook di post diffamatori alcuni giudici di merito (ad esempio il Tribunale di Gela con la Sentenza n. 550/2011) avevano escluso il reato di diffamazione; infatti, a detta di tali giudici, con tali post si avrebbe solo una conversazione virtuale sostanzialmente privata tra l’utente che pubblica e coloro che da esso sono autorizzati ad accedere ai contenuti della sua pagina personale (i c.d. amici): la comunicazione su Facebook, dunque, per sua natura non sarebbe diffusiva o pubblica.
Altri giudici di merito (ad esempio il Tribunale di Monza con la Sentenza n. 770/2010 oppure l’Ufficio delle Indagini Preliminari di Livorno con la pronuncia n. 38912/2012), al contrario, hanno ritenuto integrato il reato di diffamazione con la pubblicazione di post di contenuto diffamatorio.
I giudici di merito, in sostanza, erano divisi in due orientamenti: quelli che ritenevano che il reato di diffamazione non potesse essere compiuto su Facebook e quelli che, al contrario, ritenevano che ciò potesse avvenire.
A chiarire questo dubbio è intervenuta la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 16712/2014: essa ha ritenuto commesso il reato di diffamazione da un Militare che, sulla propria pagina personale, aveva commentato il proprio trasferimento nel modo seguente: “...attualmente defenestrato a causa dell'arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo...ma me ne fotto..per vendetta appena ho due minuti gli trombo la moglie”.
La Corte ha infatti ritenuto che la pubblicazione sul profilo personale rendesse il post accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti, grazie alla semplice registrazione al social network, ed anche per le notizie riservate agli "amici" ad una cerchia comunque ampia di soggetti. La formulazione letterale del post, peraltro, rendeva identificabile il destinatario della diffamazione, anche se solo a coloro che conoscevano la vicenda.
A prescindere da un commento circa il linguaggio impiegato, sicuramente sconveniente per chiunque ed ancor di più per un militare (nella fattispecie un Maresciallo della Guardia di Finanza), dobbiamo prendere atto della presa di posizione - ritenuta condivisibile dai commentatori - della Corte di Cassazione: si deve prestare attenzione, anche nell’impiego dei social network, a non pubblicare contenuti potenzialmente lesivi dell’altrui reputazione, perché lo schermo di un computer non può proteggere, come è giusto che sia, dalla Giustizia.
Avv. Mattia Tacchini