Come noto, la procedura di separazione giudiziale, ossia quella azionata da un coniuge nei confronti dell’altro in assenza di accordo sulle condizioni di separazione, si articola in due fasi. La prima è quella dell’udienza c.d. presidenziale, che si svolge avanti al presidente del tribunale oppure ad un giudice appositamente delegato: in essa viene tentata la conciliazione tra i coniugi e, nel caso in quest’ultima non riesca, successivamente il giudice adotta tutti i provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse della prole e dei coniugi, come l’autorizzazione ai coniugi stessi alla vita separata, l’assegnazione provvisoria della casa coniugale, la previsione di un mantenimento a favore dei figli e, eventualmente, del coniuge dotato di redditi inferiori, ecc..
La seconda fase è quella che si svolge dinanzi al giudice istruttore: essa, analoga ad un giudizio ordinario di merito, comporta il compiuto accertamento della sussistenza dei presupposti delle richieste delle parti, portando alla vera e propria sentenza di separazione; tale fase, come ovvio, può caratterizzarsi per tempistiche piuttosto lunghe.
I provvedimenti adottati nella prima fase hanno natura provvisoria e vengono adottati dal presidente del tribunale nell’interesse della prole senza aver svolto l’attività istruttoria necessaria ad adottare la decisione nel merito della questione: essi, infatti, hanno la funzione di permettere di gestire la fase traumatica (per l’unità famigliare venuta meno, per la prole, ecc.) che si verifica nel tempo intercorrente tra la proposizione del ricorso per separazione giudiziale e la pronuncia definitiva di primo grado. Tali provvedimenti, essendo temporanei e contenuti in una ordinanza, non possono essere impugnati mediante il ricorso in appello, ossia la procedura volta ad ottenere il riesame nel merito dell’intera questione: essi, infatti, devono venire impugnati mediante la più snella procedura del reclamo avanti alla corte d’appello.
Premessi i cenni di cui sopra relativi alla procedura di separazione, necessari a comprendere la questione giuridica affrontata dalla Cassazione, esaminiamo brevemente il caso sottoposto alla Corte: in sede di adozione dei provvedimenti temporanei ed urgenti durante l’udienza presidenziale, veniva posto a carico del marito l’obbligo di pagare il canone di locazione della casa coniugale, nella quale avrebbero continuato a vivere la moglie e i figli, nonché quello di corrispondere un assegno di mantenimento di € 600,00 mensili a favore della prole.
Il padre, ritenendo erronei tali provvedimenti, presentava reclamo alla corte d’appello: quest’ultima escludeva l’obbligo di pagare il canone di locazione, ma aumentava l’importo dell’assegno di mantenimento a € 800,00, pur se la moglie, non costituitasi in giudizio nella procedura di reclamo, non aveva avanzato apposita domanda. Il padre, perciò, ricorreva per cassazione ritenendo che la corte d’appello non potesse pronunciarsi d’ufficio, ossia di propria iniziativa, senza una espressa domanda giudiziale della controparte.
La Suprema Corte, rigettando il ricorso dell’uomo, ha affermato (rimanendo nel solco del proprio orientamento pacifico) che i provvedimenti necessari alla tutela degli interessi morali e materiali della prole, come quello che attribuisce e determina l’assegno di mantenimento a carico del genitore non affidatario, possono essere adottati d’ufficio dal giudice, in quanto risultano diretti a soddisfare esigenze e finalità pubblicistiche che, quindi, sono sottratte all’iniziativa e alla disponibilità delle parti.
La Cassazione, in sostanza, ha escluso che la mancata proposizione di un’apposita domanda da parte della madre in sede di reclamo - tesa ad ottenere un aumento dell’assegno di mantenimento - impedisse al giudice d’appello di pronunciarsi in tal senso: ciò perché l’interesse al benessere e al mantenimento dei figli non è proprio esclusivamente di uno o di entrambi i genitori; al contrario esso è di natura pubblica e, quindi, tutelabile anche su iniziativa dello stesso giudice.
Avv. Mattia Tacchini
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