Senza cedere al sentimentalismo, Simón parla di memoria e identità in via di estinzione partendo dalla propria esperienza biografica. D’altronde, già il titolo corrisponde al nome di un paesino rurale della Catalogna, lo stesso da cui proviene la regista Carla Simón. Ma nonostante una corrispondenza biografica, lo sguardo di Simón non cede mai al sentimentalismo o all’edulcorazione. Tutt’altro. È uno sguardo maturo, consapevole, carico di quel pudore tipico di chi non ha tempo per abbandonarsi ad emozioni futili perché impegnato in un’attività che richiede dedizione a tempo pieno. Il lavoro dei campi determina tempi e ritmi dell’esistenza, definendo l’identità di chi ci si dedica. Abbandonarlo allora, o esserne privati, significa in primis perdere se stessi. Ed è oltremodo interessante che a rappresentare la minaccia siano le energie rinnovabili, massima espressione del progresso sostenibile. È un procedere naturalmente lento quello di Alcarràs, fatto di rituali quotidiani e pratiche minuziose, di conoscenze antiche tramandate di generazione in generazione, di aneddoti e racconti, di noiose attese da far passare e tempi morti da riempire. Perché l’unica risposta possibile ad una minaccia d’estinzione, è continuare a fare l’unica cosa che si conosce e di cui si è capaci. La vita dei Solé continua il suo corso, durante quella che forse è la sua ultima estate.
La regista tratteggia con misurato riserbo affetto, incertezze, dubbi e rabbia, che restano sottopelle, trattenuti, interiorizzati, talvolta somatizzati. Come il dolore alla schiena del capofamiglia Quimet. Espressi più coi gesti che a parole. Con la stessa cura gestuale con cui si lavora la terra e si raccolgono i frutti dai rami. La stessa silenziosa attenzione che si traduce in piglio pragmatico. Alla regista non serve ricercare l’autenticità. Basta mettere in scena il racconto di una realtà per quello che è, senza bisogno di aggiungere o togliere, nascondere o esaltare, perché affidato a corpi e voci che appartengono a quel mondo. Il cui essere contadini non può che continuare a esprimersi a dispetto di tutto. Simón non offre soluzioni, perché al di là del fenomeno socio-economico, è pur sempre una questione personale. Col necessario distacco a preservare l’esperienza privata, la regista ci parla di memoria, individuale e collettiva, che trovano in Alcarràs un punto di congiunzione. È un racconto di identità e radici, cultura e tradizioni ormai dimenticate, a cui spesso si guarda con sostenuta superiorità o condiscendenza, nel vortice entusiastico di un progresso che sembra non tenere conto del prezzo da pagare. L’unica opzione possibile sembra allora fermarsi ad osservare, un’ultima volta, e imprimere nei ricordi quel mondo destinato a scomparire, per opporsi all’oblio della perdita attraverso l’esercizio della memoria.