Il caso sottoposto alla Cassazione è il seguente: a seguito di visita fiscale presso l’abitazione di un lavoratore in malattia, il medico indicava nel certificato diretto al datore di lavoro che il dipendente (un insegnante) era in attesa di una consulenza psichiatrica.
Da tale indicazione il provveditorato agli studi, al quale il dirigente scolastico aveva fatto pervenire la certificazione, aveva dedotto la natura psichiatrica della patologia del lavoratore, che poi era trapelata al di fuori di tale ente, sino a raggiungere i colleghi dell’insegnate e la sua cerchia di parenti e amici.
A seguito di questa divulgazione illecita di dati sensibili del lavoratore, quest’ultimo affermava di aver patito un danno alla propria vita professionale e di relazione: agiva perciò in giudizio contro il medico fiscale per ottenerne il risarcimento. In primo e in secondo grado la domanda giudiziale dell’insegnate veniva rigettata; ricorreva, perciò, per cassazione.
La Suprema Corte, investita della questione, ha premesso che effettivamente la riservatezza imposta al medico fiscale nella refertazione comporta che non possa venire annotata sulla copia per il datore di lavoro la diagnosi del paziente: l’art. 6 D.M. del 15.07.1986 prevede infatti che al termine della visita il medico consegni al lavoratore copia del referto di controllo e che, entro il giorno successivo, trasmetta alla sede dell'INPS le altre tre copie; di queste ultime una copia, senza indicazioni diagnostiche, è destinata al datore di lavoro o all'Istituto previdenziale che ha richiesto la visita, mentre la seconda viene conservata negli atti dell'INPS e la terza permette la liquidazione delle spettanze al medico fiscale.
La Corte ha riconosciuto inoltre che le norme a tutela della riservatezza, con particolare riferimento ai dati sensibili come quelli concernenti le condizioni di salute del dipendente malato, inducono a ritenere che il datore di lavoro debba essere a conoscenza soltanto della conferma della prognosi da parte del medico fiscale; al contrario, qualsiasi indicazione - anche concernente le visite specialistiche prescritte - dalla quale possa essere desunta la diagnosi, risulta contrastante con la normativa sulla tutela della privacy.
La Cassazione, però, ha concluso rilevando che il fatto dal quale sarebbe derivato il pregiudizio dedotto dal lavoratore, ossia il suo isolamento derivante dal comportamento diffidente e persecutorio manifestato dai colleghi e dai parenti, non è ascrivibile alla annotazione effettuata dal medico fiscale; al contrario, esso è stato causato dalla avvenuta divulgazione della richiesta di una visita collegiale psichiatrica da parte del Provveditorato al quale il preside della scuola aveva trasmesso il referto ricevuto.
In conclusione la Suprema Corte, pur avendo rilevato la violazione del diritto alla privacy dell’insegnate, ha rigettato il ricorso affermando che, in primo luogo, la domanda di risarcimento del danno era stata indirizzata nei confronti del soggetto sbagliato (il medico fiscale invece del Provveditorato) e che, inoltre, l’insegnante non aveva fornito congrua prova del danno che dichiarava di aver subito.
Avv. Mattia Tacchini
www.novastudia.com