Come noto l’usucapione (artt. 1158 e ss. c.c.) costituisce un modo di acquisto del diritto di proprietà (o di altri diritti reali, quali – ad esempio – usufrutto, servitù, ecc.): il possesso su di un bene protratto dall’interessato per il termine previsto dalla legge (per i beni immobili in generale vent’anni) comporta che l’interessato acquisti la proprietà del bene, a discapito dell’originario proprietario rimasto inerte negli anni, che “perde” la proprietà del bene.
Il possesso, volendo semplificare, può essere definito come una relazione di fatto tra un bene ed il soggetto che ne ha la materiale disponibilità, che si comporta esercitando le prerogative che sono tipiche del proprietario del bene.
Il caso esaminato dalla Suprema Corte verteva proprio in tema di usucapione: un soggetto, dopo aver acquistato da un soggetto un bene immobile (un terreno), esercitava su di esso un possesso ininterrotto di durata superiore a vent’anni; nel corso degli anni, peraltro, il suo possesso era stato pacifico, tanto che aveva effettuato diversi interventi sul bene, come l’impianto di alberi.
Durante il decorso del termine ventennale di possesso, però, sorgevano contestazioni in merito alla validità del trasferimento di tale bene immobile all’interessato; il venditore di tale bene, infatti, risultava averlo ceduto senza poterne validamente disporre. Gli originari proprietari, perciò, accampavano pretese sul terreno, inviando al possessore diffide e messe in mora, affinché il bene venisse restituito. Il possessore del bene, allora, consapevole di aver acquistato invalidamente il terreno ma ritenendo di aver posseduto il bene per il lasso di tempo necessario all’usucapione proponeva avanti al tribunale competente azione per veder dichiarato da parte sua l’acquisto per usucapione della proprietà del terreno, ritenendo sostanzialmente sanata l’invalidità dell’originario acquisto.
In primo grado la domanda del possessore veniva rigettata, con condanna dello stesso a restituire il bene; in secondo grado, invece, la domanda del possessore veniva accolta, in quanto la corte d’appello riteneva che risultasse provato il possesso utile al fine dell’usucapione, come desumibile dall’esame delle comunicazioni intercorse tra le parti e dalle testimonianze assunte durante l’istruttoria. Gli originari proprietari, perciò, ricorrevano per cassazione.
La Suprema Corte, investita della questione, ha rilevato che non è consentito attribuire efficacia interruttiva del possesso se non ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa; in alternativa il possesso può essere interrotto dall’incardinamento di un giudizio che possa portare alla privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente.
A ciò consegue che può legittimamente ritenersi che la notifica dell’atto di citazione con il quale venga richiesta la materiale consegna di tutti i beni immobili dei quali dei quali l’interessato si affermi proprietario costituisca un atto interruttivo del termine della prescrizione acquisitiva; al contrario, né la diffida né la messa in mora sono atti idonei ad interrompere il possesso e, quindi, il decorso del termine di prescrizione, in quanto il possesso può essere esercitato anche in aperto contrasto con la volontà del titolare del corrispondente diritto reale, che però non può rimanere inerte, limitandosi all’invio di semplici missive al possessore.
La Cassazione, perciò, ha confermato l’acquisto per usucapione del bene immobile da parte dell’interessato, rigettando il ricorso degli originari proprietari rimasti sostanzialmente inerti nel corso degli anni; al contrario, se gli stessi - prima del perfezionarsi del termine ventennale - avessero agito in giudizio per ottenere la condanna del possessore alla restituzione del terreno, avrebbero tutelato correttamente il proprio diritto di proprietà.
Avv. Mattia Tacchini
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