Il caso sottoposto al giudizio della Suprema Corte è il seguente: un paziente decedeva a seguito delle conseguenze di un intervento chirurgico di riduzione chiusa di una frattura nasale conseguente ad un incidente automobilistico.
Emergeva infatti che dopo l'operazione la paziente veniva trasferita nel reparto di rianimazione, dove però decedeva per insufficienza cardiorespiratoria: secondo la ricostruzione operata dai consulenti del PM e accolta dai giudici di merito, al termine dell'intervento chirurgico si era manifestata nella paziente una ischemia cerebrale, causata da una carenza d'ossigeno generalizzata a livello cerebrale, indotta dalla condotta del medico anestesista che aveva cagionato un'insufficienza respiratoria gestendo in modo scorretto le vie respiratorie dell’interessata durante l’intervento.
Sia in primo che in secondo grado il medico veniva condannato per omicidio colposo, oltre che a risarcire il danno. Dalla perizia emergeva infatti che il medico secondo le linee guida avrebbe dovuto assicurare alla paziente una corretta ventilazione polmonare durante l'intervento, per evitare il pericolo di una ostruzione delle vie respiratorie. La cattiva gestione delle vie aeree da parte del medico era peraltro proseguita pur a fronte delle segnalazione della carenza di ossigeno nel sangue durante l'intervento ad opera dei macchinari impiegati: si era verificata perciò una condizione di prolungata ipossia, con conseguente danno cerebrale.
L’imputato ricorreva perciò per cassazione. La Suprema Corte, investita della questione, ha premesso che la condotta dell’anestesista non risultava in ogni caso aderente alle linee guida e/o alle buone pratiche mediche: tale conclusione era desumibile non solo sulla base della perizia posta a base della decisione dei giudici di merito, bensì anche in base alla ricostruzione difensiva veicolata dalla difesa.
L’imputato, perciò, non poteva andare indenne da responsabilità penale, come avviene nel caso di colui che si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e che, di conseguenza, non risponde penalmente per colpa lieve. Questo in quanto era stato accertato che il medico aveva proprio disatteso tali linee guida. Al contempo, l'inosservanza delle linee guida e, comunque, delle buone pratiche clinico assistenziali, nonché la qualificazione della condotta della medico come caratterizzata da "negligenza" piuttosto che da "imperizia", escludeva altresì la configurabilità dell'ipotesi di non punibilità del fatto prevista dal nuovo art. 590-sexies c.p. (introdotto dalla c.d. Legge Gelli).
La Suprema Corte, perciò, ha confermato la condanna dell’anestesista.
Avv. Mattia Tacchini
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