Durante una passeggiata con un’amica, tra una chiacchiera e l’altra, abbiamo iniziato a raccontarci i nostri “complessi”, tutti quei pensieri e idee che abbiamo sviluppato rispetto a noi e alla nostra idea di come dovremmo essere, comportarci e altro e come queste siano cambiate da alcuni periodi particolari della nostra vita.
In psicologia la parola "complesso" si deve inizialmente a Jung, uno dei padri della Psicoanalisi, il quale definisce complesso come un insieme di ricordi e emozioni che ruotano intorno a una persona, a un’idea, una paura e altro, una costellazione che gira intorno a un fulcro, il complesso edipico ad esempio ruota intorno alla madre. Con l’avvento della Psicologia Individuale, Adler allarga a chiunque il concetto di complesso d’inferiorità: tutti abbiamo un ambito nel quale ci sentiamo meno (lavoro, fisico, relazioni interpersonali, giusto per dirne alcuni) rispetto a un ideale.
Nei complessi si fatica ad accettare una parte di sé, che non corrisponde all’ideale da noi agognato, e che per tale ragione viene “allontanata da Sé”. Più grande è la distanza tra reale e ideale più grande è la sofferenza, che porta ad agire un circolo vizioso di ulteriore distanziamento (semplificando: una persona che si considera troppo in carne, prova frustrazione quando si paragona al proprio ideale e agisce un comportamento alimentare poco corretto come compensazione andando a aumentare la distanza che percepisce).
In realtà questi pensieri e idee sono la manifestazione di una parte più profonda, generalmente rintracciabile nel vissuto personale collegato alla propria infanzia. L’autostima gioca un ruolo cruciale nel mantenimento dei complessi, senza rinforzarla è poco possibile avvicinare immagine reale e ideale.
E voi avete dei complessi?