Se ha ragione C. S. Peirce a sostenere che siamo spinti a produrre pensiero soprattutto quando qualcosa ci frastorna, e lo facciamo per ritrovare l’equilibrio perduto, le incombenze di una madre dovrebbero risultare le più congeniali alla creatività della mente. Ma per la tradizione filosofica occidentale «cuore di mamma» non si concilia affatto con «testa di mamma», anzi sembra precluderne addirittura la possibilità. Dove si muovono le viscere, non c’è posto per l’astrazione.
Maneggiando con sapiente garbo e al tempo stesso con giudizio saettante dottrine, mitologie, teologhemi, Francesca Rigotti capovolge tale luogo comune: le cure domestiche attivano un sensorio estetico e morale che, lungi dall’ostacolare la riflessione, offre un prezioso vantaggio speculativo. Una prospettiva «praticalista» che ha radici nell’esperienza di Rigotti filosofa e madre di quattro figli, arruola figure esemplari – come la prolificissima G. E. M. Anscombe, studiosa di Wittgenstein – e rifà all’inverso il cammino di una delle metafore più comuni, quella della concezione e del parto intellettuali. Esclusi dalla procreazione carnale, i filosofi se ne sono appropriati in modo traslato, e ne hanno coniato una versione eroica e spiritualizzata che ha finito per obliterare la figura della madre. È venuto il momento di restituirle la centralità all’interno delle «cose prime».