UNA MADRE UNA FIGLIA – regia di Mahamat-Saleh Haroun
Genere Drammatico - durata 88 minuti
A N'Djamena, capitale del Ciad, niente è facile per le donne, soprattutto per Amina che alleva una figlia adolescente da sola. Non ha un marito Amina e non ne vuole. Ragazza madre, che ha rifiutato di piegarsi alle convenzioni, ha pagato a caro prezzo (l'esclusione dalla sua famiglia) il suo desiderio di indipendenza. Per assicurare un avvenire a Maria, Amina lavora duro, smontando pneumatici da cui estrae un filo metallico che ricicla intrecciando cestini. Panieri artigianali che poi vende per strada, battendo sul tempo la concorrenza ed eludendo le attenzioni morbose di un vicino di casa, che vorrebbe sposarla, e la predica dell'imam, che non approva il suo nubilato.
Incorniciate nel blu cobalto e nel giallo oro, composizioni di madonne africane sullo sfondo delle strade di terra, labirinti di tufo, interni misteriosi, Amina e Maria si aggirano in uno spazio surreale e indefinibile. L’immagine altra di Mahamta Sleh Haroun non ha prospettiva né angoli, è un vuoto sacrale sulle macerie di N’Djamena, la ricchezza di linee e luce, l’eleganze dei tessuti batik, la bellezza del ciad, poverissimo. Sottosuolo metaforico di un’ex colonia francese. Cinema non percepibile dall’occhio in cerca di sceneggiatura, azione e sentimenti. Lo sguardo invece si perde nell’ellissi narrativa e nell’orizzonte assolato, dietro al thriller emozionante di donne congiunde dal Lingui (titolo originale), parola ciadiana per dire i legami divini che le uniscono, contro la sfrontata legge islamista. Sottomissione, escissione, divieto d’aborto. L’imam perseguita Amina, ex ragazza madre, rinnegata dalla famiglia, indipendente. Maria tace sull’u,p cjje ‘ha messa incinta, e attiva la rete di protezione. Sorellanza. Come ingannare e kpunire i colpevoli. Pedinamento, fuga e conquista, riusciranno le ragazze a vincere, a danzare, a tornare a scuola?
Mahamat-Saleh Haroun torna in concorso a Cannes undici anni dopo Un homme qui crie (che gli valse il Premio della Giuria) con Lingui (Sacred Bonds il titolo internazionale), film che proprio partendo dalla sacralità dei legami mette in risalto la condizione di sudditanza e ingiustizia subita dalle donne in ancora troppe parti del mondo. Attraverso un racconto lineare e una messa in scena senza fronzoli, Haroun realizza per la prima volta un film dominato da presenze femminili, dove gli uomini – di contorno – pretendono comunque di esercitare ogni tipo di controllo: dal vicino di casa che cerca in ogni modo di convincere Amina a diventare la sua donna all’imam che la redarguisce di continuo affinché non dimentichi di presentarsi alla preghiera.
È un cinema che non ha bisogno di particolari artifici, quello di Haroun, perché rintraccia nella quotidianità di un ambiente oppressivo e ingiusto gli slanci di figure decise a non dimenticare l’importanza, per l’appunto, dei lingui.
Attraverso l’odissea di questa mamma e di sua figlia, il cineasta ciadiano sottolinea il combattimento delle donne, condotto in maniera discreta, per tentare di affrancarsi in un sistema che nella migliore delle ipotesi le vuole ai margini, nel peggiore soccombenti, dove ancora oggi i padri decidono di far infibulare le proprie bambine.
Un film lineare, che sfrutta la propria semplicità per evitare qualsiasi caduta semplicistica. E che, nel finale, offre una simbolica via d’uscita alle due protagoniste, rimaste per qualche attimo intrappolate nel dedalo di vicoletti labirintici.