Monsignor Luigi Bettazzi, per tre anni Vescovo ausiliare di Bologna con il cardinal Lercaro, fu vescovo di Ivrea per oltre 32 anni, a partire dalla fine del 1966.
“Una storia rappresentativa non solo di un cristiano coerente e di un uomo con la schiena dritta, ma anche di un cittadino attento a mantenere una personale coerenza tra i vincoli dello stato clericale, la coscienza di essere nato laico come tutti a questo mondo e la responsabilità nei confronti dei fratelli non limitata all’interno della comunità di fede, ma estesa all’intera società umana”: così dice di lui Codrignani nell’articolo scritto per “Mosaico di pace” del maggio 2016 in occasione dell’attribuzione della cittadinanza onoraria di Bologna al “vescovo Luigi”, il “don Luigi dei bolognesi” che nel discorso pronunciato per l’occasione definì il conferimento un “dono che mi emoziona e mi gratifica”. In quel discorso ha reiteratamente dichiarato la sua laicità, cioè “quel livello di cultura che permette di dialogare e collaborare con ogni altro essere umano prescindendo dalla religione”.
Una persona che ha sostenuto e sviluppato temi come la giustizia, la pace nel mondo, la nonviolenza, il rispetto dei diritti umani, la libertà e la dignità di ogni persona, tutto teso a portare avanti un impegno già assunto fin dalla partecipazione al Concilio Vaticano II, evento che Monsignor Bettazzi definisce “la grande luce e la grande forza del mio apostolato” (discorso del 4 aprile 2016 in occasione della cittadinanza onoraria di Bologna).
Dal 1968 presidente nazionale di Pax Christi, movimento cattolico per la pace, poi nominato alla presidenza internazionale, rinnovò la sua “esperienza di laicità, aprendosi ad ulteriori approfondimenti ideali ed impegni per la pace, per il disarmo, per la nonviolenza, per i diritti umani, per la libertà”.
Ancora nello stesso discorso, “con l’investitura di Pax Christi mi trovai fra l’altro ad aprirmi a dialoghi, anche a lettere aperte con uomini pubblici, lettere laiche, anche se sempre radicate nel Vangelo”. Ricordiamo le lettere indirizzate ad esempio a Zaccagnini, al presidente dell’Olivetti, a Berlinguer, a Pertini…fino, recentemente, alla lettera aperta all’attuale presidente del consiglio Conte.
Óscar Arnulfo Romero, nato a Ciudad Barrios nel 1917 era un uomo di provincia: timido, impacciato, di formazione conservatrice, cresciuto nel rispetto dell’autorità. È stato il contatto quotidiano con i fedeli a fargli prendere coscienza dell’iniquità del sistema sociopolitico dell’epoca, che “scartava” la maggior parte dei cittadini.
Monsignor Romero ha imparato a leggere il Vangelo nel suo tempo. E ha deciso di agire di conseguenza. Un percorso lungo e faticoso. Cominciato quando era vescovo della poverissima diocesi di Santiago de María, tra il 1975 e il 1977, prima di tornare nella capitale, come successore di monsignor Chávez. L’omicidio dell’amico gesuita, padre Rutilio Grande, il 12 marzo 1977, gli fece maturare l’urgenza di una parola chiara, da parte dei rappresentanti della Chiesa, su quel momento sanguinoso.
Così Romero divenne voce dei senza voce. Tanto di intimare ai militari, dal pulpito, di “cessare la repressione”. Era il 23 marzo 1980. Il giorno dopo l’avrebbero ucciso proprio mentre diceva: "Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini ci spinga a dare anche il nostro corpo e il nostro sangue al dolore e alla sofferenza come Cristo; non per noi stessi ma per dare al nostro popolo frutti di giustizia e di pace".
L'evento è stato organizzato in collaborazione con l'Associazione Casa della Resistenza, ed è inserito nel programma della Festa dal Bass che ha visto l'adesione di diverse Associazioni Verbanesi ed il patrocinio della Città di Verbania.