Metti una Sera al Cinema - Alcarras
Metti una Sera al Cinema presso Auditorium de Il Chiostro: ,martedì 25 ottobre 2022
👤 Redazione ⌚ 24 Ottobre 2022 - 08:01 Commentaa-
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Nella campagna assolata della Catalogna, la famiglia Solé vive e coltiva da decenni un vasto frutteto che gli era stato offerto dopo la guerra civile dai proprietari, i Pinyol. Un gesto d'onore a ricompensa di un aiuto cruciale, ma mai siglato con documenti ufficiali. I Solé si ritrovano perciò impotenti quando furgoni carichi di pannelli solari arrivano sui terreni, pronti a riconvertire il frutteto ed eliminare l'unica attività che la famiglia abbia conosciuto.
Senza cedere al sentimentalismo, Simón parla di memoria e identità in via di estinzione partendo dalla propria esperienza biografica. D’altronde, già il titolo corrisponde al nome di un paesino rurale della Catalogna, lo stesso da cui proviene la regista Carla Simón. Ma nonostante una corrispondenza biografica, lo sguardo di Simón non cede mai al sentimentalismo o all’edulcorazione. Tutt’altro. È uno sguardo maturo, consapevole, carico di quel pudore tipico di chi non ha tempo per abbandonarsi ad emozioni futili perché impegnato in un’attività che richiede dedizione a tempo pieno. Il lavoro dei campi determina tempi e ritmi dell’esistenza, definendo l’identità di chi ci si dedica. Abbandonarlo allora, o esserne privati, significa in primis perdere se stessi. Ed è oltremodo interessante che a rappresentare la minaccia siano le energie rinnovabili, massima espressione del progresso sostenibile. È un procedere naturalmente lento quello di Alcarràs, fatto di rituali quotidiani e pratiche minuziose, di conoscenze antiche tramandate di generazione in generazione, di aneddoti e racconti, di noiose attese da far passare e tempi morti da riempire. Perché l’unica risposta possibile ad una minaccia d’estinzione, è continuare a fare l’unica cosa che si conosce e di cui si è capaci. La vita dei Solé continua il suo corso, durante quella che forse è la sua ultima estate.
La regista tratteggia con misurato riserbo affetto, incertezze, dubbi e rabbia, che restano sottopelle, trattenuti, interiorizzati, talvolta somatizzati. Come il dolore alla schiena del capofamiglia Quimet. Espressi più coi gesti che a parole. Con la stessa cura gestuale con cui si lavora la terra e si raccolgono i frutti dai rami. La stessa silenziosa attenzione che si traduce in piglio pragmatico. Alla regista non serve ricercare l’autenticità. Basta mettere in scena il racconto di una realtà per quello che è, senza bisogno di aggiungere o togliere, nascondere o esaltare, perché affidato a corpi e voci che appartengono a quel mondo. Il cui essere contadini non può che continuare a esprimersi a dispetto di tutto. Simón non offre soluzioni, perché al di là del fenomeno socio-economico, è pur sempre una questione personale. Col necessario distacco a preservare l’esperienza privata, la regista ci parla di memoria, individuale e collettiva, che trovano in Alcarràs un punto di congiunzione. È un racconto di identità e radici, cultura e tradizioni ormai dimenticate, a cui spesso si guarda con sostenuta superiorità o condiscendenza, nel vortice entusiastico di un progresso che sembra non tenere conto del prezzo da pagare. L’unica opzione possibile sembra allora fermarsi ad osservare, un’ultima volta, e imprimere nei ricordi quel mondo destinato a scomparire, per opporsi all’oblio della perdita attraverso l’esercizio della memoria.
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