LegalNews: Responsabilità del medico generico
La Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n. 3869 del 26.01.2018 ha esaminato il tema della responsabilità del medico generico e delle caratteristiche della diligenza che gli è richiesta nell’esercizio della sua attività
La Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul caso seguente: un paziente affetto da tetraparesi spastica e cerebropatia, ricoverato da molti anni presso un centro di riabilitazione, durante la degenza iniziava a lamentare forti dolori alla coscia, oltre alla impossibilità di appoggiare i piedi a terra, operazione in precedenza possibile; veniva perciò chiamato il medico generico della struttura, in modo che visitasse l’interessato.
Il medico di base invece di visitare il paziente si limitava a prescrivere allo stesso degli antibiotici per un pregresso problema dentario, senza nemmeno visionare gli arti inferiori dell’interessato. Solo successivamente emergeva che, in realtà, il paziente manifestava un gonfiore evidente alla coscia, causato da una frattura dallo stesso riportata e non diagnosticata dal medico di base; a causa delle complicanze derivanti dalla frattura, il paziente poi decedeva per una tromboembolia polmonare.
Sia in primo che in secondo grado il medico generico veniva condannato per omicidio colposo, in quanto la sua condotta professionale veniva qualificata come gravemente negligente; venivano altresì condannati anche altri medici dell’ospedale presso il quale il paziente era stato ricoverato successivamente all’accertamento della mancata diagnosi ad opera del medico di base, in quanto si erano verificate anche ulteriori gravi negligenze professionali.
Il medico generico, perciò, ricorreva per cassazione, ritenendo di aver tenuto una condotta conforme ad una invalsa prassi, cristallizzata da tempo, che avrebbe costituito un'esimente o quanto meno un profilo di colpa lieve, penalmente irrilevante, anche considerato che lo stesso aveva correttamente rappresentato agli operatori del centro la necessità di sottoporre il paziente ad visita specialistica da parte di un medico fisiatra, che pur essendo intervenuto qualche giorno dopo non aveva rilevato la rottura del femore, causando autonomamente la morte del paziente.
La Suprema Corte, investita della questione, ha preliminarmente rilevato che la corte d’appello aveva correttamente accertato che il paziente, al momento della visita del medico generico, accusava un forte dolore alla gamba e non riusciva a mantenere la posizione eretta; pur a fronte di questa situazione il medico generico non aveva visitato il paziente, nonostante sussistessero già plurimi elementi che imponevano la massima attenzione ed il massimo scrupolo, trattandosi di una persona affetta da un quadro patologico complesso.
Tale omissione a detta della Cassazione costituiva una grave negligenza, in quanto il medico di base nel suo primo intervento non avrebbe dovuto limitarsi a consigliare di rivolgersi ad un fisiatra ma visionando, come suo dovere professionale, la gamba dolorante, avrebbe potuto accorgersi del gonfiore alla coscia e di conseguenza tempestivamente diagnosticare (o quanto meno sospettare) la presenza di una frattura: in tal modo il medico avrebbe potuto chiedere immediatamente ulteriori esami ed accertamenti (ad esempio una banale radiografia) che avrebbero evidenziato la frattura, consentendo la somministrazione delle terapie dirette a scongiurare in maniera drastica l'insorgenza di una tromboembolia.
Per tali considerazioni la Corte ha ritenuto sussistente il profilo di colpa ascritto al medico di base, rilevando che non risulta affatto sostenibile quanto assunto dalla difesa dell’imputato, ossia che il medico di base svolgerebbe una funzione quasi amministrativa, neppure inquadrabile nell'arte sanitaria, limitata alla prescrizione dei medicinali normalmente assunti dal paziente. La Cassazione infatti ha perentoriamente sottolineato che la professione medica impone ben altra diligenza, e non certo la macroscopica superficialità dimostrata dall'imputato, che aveva omesso di visitare un paziente che manifestava una grande sofferenza e, per la disabilità di cui era affetto, non era in grado di comunicare e di esprimersi con chiarezza sulla sintomatologia accusata.
Avv. Mattia Tacchini
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